lunedì 20 aprile 2009

Ri-sentimenti nazionali e “rivoluzione antropogica” rumena


Il processo di costruzione dello stato nazione, qui in Romania non è mai terminato. Iniziato, come in tanti altri luoghi d'Europa, alla metà del XIX secolo, esaltando i caratteri di un popolo che si sente discendente degli antichi Romani, parla ancora alle menti e ai cuori di persone che faticano a trovare una prospettiva intima e collettiva da cui guardare saldamente il mondo.

Cos'è accaduto. Quella della Romania è una storia di conquiste, smembramenti, dittature e colonizzazioni camuffate. Tanto per restare al passato recente, parte della Romania, la Bassarabia, l'attuale Repubblica Moldova, fu spartita poco prima della Seconda Guerra Mondiale dal patto Ribbentrop – Molotov, e finì, al termine del conflitto, direttamente sotto il controllo sovietico. La Romania non ebbe sorte tanto diversa, finendo sotto la famigerata influenza comunista moscovita.

A inizi aprile, in occasione delle manifestazioni di sostegno all rivolta degli studenti di Chisinau, sono rimasto colpito da notare giovani assolutamente occidentalizzati e laicizzanti, fare sfoggio di un sentimento nazionalista a cui, venedo dall'Italia, non sono assolutamente abituato e che reputo (forse scioccamente) sciocco.

Due sono le coordinate che possono aiutare a districarsi nel presente del Paese dei Carpazi. Entrambe si intersecano nell'amaro passato comunista. La prima è la costruzione ancora in atto di un sentimento nazionale, mai terminato e simbolizzato dal poeta nazionale Mihail Eminescu. Non a caso, una delle politiche più disastrose di Ceausescu è stata appunto un desiderio di ripagare il debito estero del Paese, a costo di enormi sacrifici e interminabile scarsità di generi alimentari e di altri beni di consumo per la popolazione civile, per dimostrare la grandezza e la forza della nazione. Nazionalismo e autarchia. E forse questa modernizzazione incompiuta spiega anche il lento e faticoso districarsi del Paese nella transizione al mercato che, come mi dicono alcuni amici rumeni, dura ormai da vent'anni.

La seconda coordinata, legata alla prima come due piatti di una vecchia bilancia che oscillano lontani, è un sentimento di inferiorità verso le culture occidentali. La capitale è piena di copie di momumenti esteri e nel secolo scorso, nel periodo tra le due guerre, veniva soprannominata “la piccola Parigi”. Gli affari più grandi qui in Romania sono gestiti da aziende straniere, che trovano terreno fertile che invece i locali non riescono a valorizzare. Più che nel resto dei Paesi dell'ex Patto di Varsavia, qui in Romania l'avvento del regime comunista ha significato il tentativo di una sistematica cancellazione del passato. Piano che mi pare all'altzza del partito comunista cinese e di Pol Pot, il sangunario dittatore cambogiano. A Bucarest interi quartieri di preziosa architettura 'belle epoque' sono stati rasi al suo per far posto a distese di bloc e al mostruoso edificio che ora ospita il Parlamento, che sarebbe dovuto essere la residenza di Ceausescu e di sua moglie Elena. Un classico suicidio culturale di una cultura che stenta a inquadrarsi in un angolo sicuro di una mappa cognitiva che le riservi un posto alla pari accanto alle altre culture europee e mondiali.

Il 'progresso', come una pianta infestante, trova su quest'albero dalle radici poco solide il terreno ideale dove prosperare. Se negli anni '80 il panorama urbano era deturpato dai palazzi grigio-comunista, oggi il romanticismo di alcuni scorci è disturbato dal proliferare dei centri commerciali e da un'urbanistica dalle poche regole e facili guadagni.

Ogni giorno, come un ritornello, dal panettiere o nelle pasticcerie, mentre compro degli ottimi rustici dolci o salati, resto scioccato dall'incarto rigorosamente in plastica di infima qualità che si rompe al primo leggero strattone. La “rivoluzione antropologica” dell'incontro tra moderno, tradizione e ceneri del comunismo, conditi con lo spirito tzigano che aleggia per la Romania, ha il triste profilo di cocalari e pitzipoanca, che sono i termini dispregiativi con cui la Bucarest bene e colta definisce ragazzi e ragazze della periferia acconciati in modo ridicolo in un'esaltazione di mascolinità, violenza malcelata, bellezza da grande magazzino, esibizione di contorni volgari e stasus symbol. Le sonorità di queste generazioni di giovani sono quelle tristi di manele, sottoprodotto della tradizione musicale tzigana adattato all'occorrenza a gusti discotecari commerciali.

Il colonialismo e la perdita della sovranità nazionale oggi per i rumeni hanno il viso 'democratico' dell'Unione Europea. Sono tanti coloro che vedono frettoloso e campato in aria il processo di integrazione nella Comunità. Processo che secondo i detrattori avrebbe portato ancora una volta alla svendita delle bellezze e dei prodotti (specie di quelli alimentari) nazionali. La strada verso una risoluzione del dilemma dei ri-sentimenti nazionali rumeni sembra ancora lunga.

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