mercoledì 8 aprile 2009

I cugini di campagna

Sto cercando di imparare qualche parola di rumeno. Parto a fine mese, vado a Bucarest per un Progetto Leonardo, finanziato con i soldi della Comunità Europea e organizzato dall'Università di Foggia. Ci resterò quattro mesi, lavorerò con una Ong, Save the Children, in un centro diurno che ospita bambini dalla triste infanzia, orfani, Rom e bambini di strada. Occasione splendida e irripetibile, volare al di là della cortina quando il sentimento dominante è 'rispediamoli tutti a casa', un muro non più fatto di ferro e cemento ma di confusione, ignoranza e diffidenza.

Mi accorgo sempre più quanto le nostre lingue siano simili. Il romeno infatti, al pari dell'italiano o del francese, è una lingua romanza figlia del latino. Qualche esempio illustrerà meglio la somiglianza di cui parlo: 'vulpe' significa volpe, 'nomad' nomade, 'altul' altro, 'librărie' libreria e 'liber' libero. Le parole sono gli strumenti grazie ai quali costruiamo la realtà che ci circonda, il linguaggio è metafora della relazione profonda che ci lega alla natura e ai nostri simili, che parla del rispetto della vita, della danza dell'amore e del rapporto con l'inevitabile morte. Per questo, per sottolineare le affinità che uniscono i due popoli, spesso si dice che italiani e romeni siano cugini.

Eppure nessuna lingua suona oggi alle nostre orecchie tanto distante quanto quella parlata al di là dei Balcani. Alimentato dai tristi episodi di cronaca e dalla strumentalizzazione politica, è sempre più diffuso in Italia quello che si può a ragione definire un 'conformismo dell'avversione': i romeni sembrano essere diventati il capro espiatorio di turno, l'oggetto dell'ennesima caccia alle streghe.

Siamo due popoli le cui culture si intersecano e sovrappongono. Lo percepiamo, ne siamo consapevoli, ma questo pensiero ci infastidisce. I nostri percorsi umani sono simili: i romeni arrivano oggi in Italia come qualche decennio fa i nostri nonni partivano per le Americhe, l'Australia o l'Europa continentale, con la stessa valigia di cartone, con le stesse speranze e la stessa frustrazione di vedersi sbattuta la porta in faccia solo perchè le mani sono quelle grosse da contadino (Maddalena Tirabassi, studiosa dei fenomeni migratori, scrive: “I calabresi e i siciliani che approdavano alle città statunitensi, da una Commissione parlamentare istituita nel 1911 [...] venivano individuati e descritti come coloro che davano un contributo fondamentale alla crescita del fenomeno della delinquenza nelle città americane”).

I romeni sono nostri cugini, ma cugini di campagna. Quelli di cui ci vergogniamo quando li presentiamo ai nostri amici, quelli che non conoscono le buone maniere e abbiamo paura ci facciano fare brutta figura. Il cugino di campagna rappresenta la parte di noi che consideriamo poco presentabile e preferiamo non vedere o tenere in disparte, la stessa che, quando la riconosciamo nello specchio, quasi stentiamo a credere ci appartenga, ora che siamo diventati borghesi e metropolitani.

Il problema è che, più si tiene nascosto e separato un aspetto della propria personalità, più lo si proietta all'esterno e diventano forti i sentimenti di ostilità verso chi ci ricorda quel tratto del nostro carattere che ci risulta così difficile accettare. Come quando ci sta antipatico qualcuno, ma talmente antipatico che non riusciamo a sopportarlo neanche per mezz'ora, talmente odiosa è l'immagine che vediamo riflessa nella pupilla dell'altro, la nostra propria immagine.
(pubblicato il 17 marzo sul quotidiano L'Attacco)

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