Sto cercando di imparare qualche parola di rumeno. Parto a fine mese, vado a Bucarest per un Progetto Leonardo, finanziato con i soldi della Comunità Europea e organizzato dall'Università di Foggia. Ci resterò quattro mesi, lavorerò con una Ong, Save the Children, in un centro diurno che ospita bambini dalla triste infanzia, orfani, Rom e bambini di strada. Occasione splendida e irripetibile, volare al di là della cortina quando il sentimento dominante è 'rispediamoli tutti a casa', un muro non più fatto di ferro e cemento ma di confusione, ignoranza e diffidenza.
Mi accorgo sempre più quanto le nostre lingue siano simili. Il romeno infatti, al pari dell'italiano o del francese, è una lingua romanza figlia del latino. Qualche esempio illustrerà meglio la somiglianza di cui parlo: 'vulpe' significa volpe, 'nomad' nomade, 'altul' altro, 'librărie' libreria e 'liber' libero. Le parole sono gli strumenti grazie ai quali costruiamo la realtà che ci circonda, il linguaggio è metafora della relazione profonda che ci lega alla natura e ai nostri simili, che parla del rispetto della vita, della danza dell'amore e del rapporto con l'inevitabile morte. Per questo, per sottolineare le affinità che uniscono i due popoli, spesso si dice che italiani e romeni siano cugini.
Eppure nessuna lingua suona oggi alle nostre orecchie tanto distante quanto quella parlata al di là dei Balcani. Alimentato dai tristi episodi di cronaca e dalla strumentalizzazione politica, è sempre più diffuso in Italia quello che si può a ragione definire un 'conformismo dell'avversione': i romeni sembrano essere diventati il capro espiatorio di turno, l'oggetto dell'ennesima caccia alle streghe.
Siamo due popoli le cui culture si intersecano e sovrappongono. Lo percepiamo, ne siamo consapevoli, ma questo pensiero ci infastidisce. I nostri percorsi umani sono simili: i romeni arrivano oggi in Italia come qualche decennio fa i nostri nonni partivano per le Americhe, l'Australia o l'Europa continentale, con la stessa valigia di cartone, con le stesse speranze e la stessa frustrazione di vedersi sbattuta la porta in faccia solo perchè le mani sono quelle grosse da contadino (Maddalena Tirabassi, studiosa dei fenomeni migratori, scrive: “I calabresi e i siciliani che approdavano alle città statunitensi, da una Commissione parlamentare istituita nel 1911 [...] venivano individuati e descritti come coloro che davano un contributo fondamentale alla crescita del fenomeno della delinquenza nelle città americane”).
I romeni sono nostri cugini, ma cugini di campagna. Quelli di cui ci vergogniamo quando li presentiamo ai nostri amici, quelli che non conoscono le buone maniere e abbiamo paura ci facciano fare brutta figura. Il cugino di campagna rappresenta la parte di noi che consideriamo poco presentabile e preferiamo non vedere o tenere in disparte, la stessa che, quando la riconosciamo nello specchio, quasi stentiamo a credere ci appartenga, ora che siamo diventati borghesi e metropolitani.
Il problema è che, più si tiene nascosto e separato un aspetto della propria personalità, più lo si proietta all'esterno e diventano forti i sentimenti di ostilità verso chi ci ricorda quel tratto del nostro carattere che ci risulta così difficile accettare. Come quando ci sta antipatico qualcuno, ma talmente antipatico che non riusciamo a sopportarlo neanche per mezz'ora, talmente odiosa è l'immagine che vediamo riflessa nella pupilla dell'altro, la nostra propria immagine.
(pubblicato il 17 marzo sul quotidiano L'Attacco)
Mi accorgo sempre più quanto le nostre lingue siano simili. Il romeno infatti, al pari dell'italiano o del francese, è una lingua romanza figlia del latino. Qualche esempio illustrerà meglio la somiglianza di cui parlo: 'vulpe' significa volpe, 'nomad' nomade, 'altul' altro, 'librărie' libreria e 'liber' libero. Le parole sono gli strumenti grazie ai quali costruiamo la realtà che ci circonda, il linguaggio è metafora della relazione profonda che ci lega alla natura e ai nostri simili, che parla del rispetto della vita, della danza dell'amore e del rapporto con l'inevitabile morte. Per questo, per sottolineare le affinità che uniscono i due popoli, spesso si dice che italiani e romeni siano cugini.
Eppure nessuna lingua suona oggi alle nostre orecchie tanto distante quanto quella parlata al di là dei Balcani. Alimentato dai tristi episodi di cronaca e dalla strumentalizzazione politica, è sempre più diffuso in Italia quello che si può a ragione definire un 'conformismo dell'avversione': i romeni sembrano essere diventati il capro espiatorio di turno, l'oggetto dell'ennesima caccia alle streghe.
Siamo due popoli le cui culture si intersecano e sovrappongono. Lo percepiamo, ne siamo consapevoli, ma questo pensiero ci infastidisce. I nostri percorsi umani sono simili: i romeni arrivano oggi in Italia come qualche decennio fa i nostri nonni partivano per le Americhe, l'Australia o l'Europa continentale, con la stessa valigia di cartone, con le stesse speranze e la stessa frustrazione di vedersi sbattuta la porta in faccia solo perchè le mani sono quelle grosse da contadino (Maddalena Tirabassi, studiosa dei fenomeni migratori, scrive: “I calabresi e i siciliani che approdavano alle città statunitensi, da una Commissione parlamentare istituita nel 1911 [...] venivano individuati e descritti come coloro che davano un contributo fondamentale alla crescita del fenomeno della delinquenza nelle città americane”).
I romeni sono nostri cugini, ma cugini di campagna. Quelli di cui ci vergogniamo quando li presentiamo ai nostri amici, quelli che non conoscono le buone maniere e abbiamo paura ci facciano fare brutta figura. Il cugino di campagna rappresenta la parte di noi che consideriamo poco presentabile e preferiamo non vedere o tenere in disparte, la stessa che, quando la riconosciamo nello specchio, quasi stentiamo a credere ci appartenga, ora che siamo diventati borghesi e metropolitani.
Il problema è che, più si tiene nascosto e separato un aspetto della propria personalità, più lo si proietta all'esterno e diventano forti i sentimenti di ostilità verso chi ci ricorda quel tratto del nostro carattere che ci risulta così difficile accettare. Come quando ci sta antipatico qualcuno, ma talmente antipatico che non riusciamo a sopportarlo neanche per mezz'ora, talmente odiosa è l'immagine che vediamo riflessa nella pupilla dell'altro, la nostra propria immagine.
(pubblicato il 17 marzo sul quotidiano L'Attacco)
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